Le lettere di Van Gogh sfatano il luogo comune del genio folle
“Sono sicuro di avere il senso del colore, e lo avrò
sempre più, ho la pittura fin nel midollo delle ossa”
Leggere nei Millenni Einaudi la selezione delle lettere che Vincent Van Gogh scrisse dal 1872 al 1890 – a Émil Bernard e Paul Signac, con i quali si era ritrovato a dipingere lungo la Senna, al più celebre Paul Gauguin, con cui ebbe “discussioni elettriche”, alla sorella Willemien e quelle più numerose, lunghe e accorate al fratello minore Theo, suo mecenate – vuol dire addentrarsi nella vita e nell’arte, nella mente e nel cuore di uno degli artisti più audaci e personali della modernità, conoscendone la sensibilità, l’irrequietezza, l’intransigenza, il talento, la forza. Nell’epistolario ci sono molte cose. L’ampia cultura letteraria (Zola, Maupassant, Flaubert, Balzac, Hugo, i fratelli Goncourt, Dickens, Shakespeare, Dostoevskij) e pittorica (gli amati Jean-François Millet ed Eugène Delacroix, e Rembrandt, Hals, Vermeer, Van Eyck, Daumier, Giotto…). Le storie d’amore disperate (“Continuo ad avere i legami sentimentali più impossibili e inadatti, dai quali esco di norma coperto di guai e di vergogna”), che nel tempo scompariranno per lasciare posto a una dedizione assoluta alla propria arte (“Per me la continenza è un vantaggio”).
I conflitti familiari (“In nessun altro posto mi sentirei più straniero che nella mia famiglia o nel mio paese”) e gli aspri diverbi con il padre, il pastore protestante Theodorus Van Gogh, che prima voleva internarlo in manicomio e poi metterlo sotto tutela. Il temperamento sanguigno e impulsivo (“Sono un uomo passionale, capace di fare e soggetto a fare cose più o meno insensate di cui mi capita più o meno di pentirmi”) perennemente in lotta contro l’indifferenza e l’ipocrisia – vissute anche nell’ambiente religioso al tempo in cui studiava teologia e faceva il predicatore – e contro un mondo che sembrava ignorarlo come artista (in vita riuscì a vendere un solo quadro, La vigna rossa), nonostante la consapevolezza del proprio valore. E sopra tutto il dialogo incessante tra ispirazione e ragione, tra pensiero e opere, spesso abbozzate sulla carta accanto alle parole, dove traspare una coscienza su mezzi ed effetti della propria arte che fanno piazza pulita del cliché ancora in voga di Van Gogh come artista pazzo e geniale (nel 2013 Caparezza ha scritto sulla questione un rap esemplare, Mica Van Gogh). I suoi quadri furono invece il risultato di applicazione, studio, rigore: “Le leggi dei colori sono indicibilmente belle proprio perché non lasciano alcuno spazio al caso. Proprio come oggi non si crede più ai miracoli, né a un Dio capriccioso e dispotico che salta di palo in frasca, ma si comincia invece ad avere più rispetto, ammirazione e fiducia nella natura, allo stesso modo e per gli stessi motivi trovo che nell’arte bisognerebbe non dico abbandonare le vecchie idee di genio innato, ispirazione eccetera, ma analizzarle per bene, verificarle e cambiarle notevolmente. Con ciò non intendo negare l’esistenza del genio e nemmeno il suo essere innato. Nego invece le conseguenze che ne vengono tratte, e cioè che la teoria e l’insegnamento saranno sempre inutili per la loro stessa natura”. Nell’epistolario c’è la sua passione per il colore: “Si deve cercare nel colore la vita, disegnare davvero vuol dire modellare con il colore. Ho fatto una dozzina di paesaggi apertamente verdi, apertamente blu”.
C’è la sua ossessione per il naturalismo dell’espressione, ottenuto con lunghe sessioni di lavoro al gelo o sotto il sole: “Per arrivare al vero bisogna lavorare molto, e a lungo”, “Non conosco altre vie se non quella di lottare con la natura fino a quando non mi svela il suo segreto”. C’è la sua fame di verità, di autenticità, nella vita come nell’arte: “Che parlino pure di tecnica quanto vogliono, con parole farisee, parole vuote, parole ipocrite, i veri pittori si lasciano guidare da quella coscienza chiamata sentimento, la loro anima, il loro cervello non sono al servizio del pennello, ma il pennello è al servizio del loro cervello”. Quando stava male e soffriva, non dipingeva né scriveva, attività per lui inscindibili. Quando era in salute divorava la realtà: un febbrile percorso artistico di oltre 800 dipinti, la quasi totalità compiuti in pochi anni, tra il 1885 (l’anno dei Mangiatori di patate, quadro di cui era fiero perché lo faceva sentire un contadino in mezzo ai contadini) e il 1890 (con gli ultimi paesaggi simboleggiati dal funereo Campagna con corvi), e più di 1000 disegni. Solo nei 15 mesi (febbraio 1888-maggio 1889) della permanenza ad Arles ne dipinse più di 170, tra cui molti dei suoi capolavori più conosciuti (La mietitura, Il caffè di notte, Notte stellata sul Rodano, La camera da letto, Girasoli, per citare alcuni di quelli riprodotti nel volume) oltre a un centinaio di disegni e acquerelli. Poi gli ultimi strappi: il taglio dell’orecchio, che Vincent avvolse in un foglio di giornale, consegnandolo a una prostituta; i sempre più frequenti attacchi psicotici nel corso del 1889, che lo porteranno all’internamento nel manicomio di Saint-Rémy-de-Provence; il viaggio a nord (Auvers-sur-Oise, nell’Île-de-France) dal dottor Gachet per un incontro poco risolutivo. La domenica del 27 luglio 1890 Vincent si spara un colpo di pistola al petto, due giorni dopo muore. Un paio di settimane prima aveva scritto: “Mi sono rimesso al lavoro – però quasi mi cadeva di mano il pennello – e sapendo ciò che volevo, ho dipinto ancora tre grandi tele. Sono immense distese di campi di grano sotto cieli nuvolosi, in cui ho cercato deliberatamente di esprimere tristezza, estrema solitudine”.

Vincent Van Gogh, Lettere, Einaudi, Torino 2013, a cura e con un’introduzione di Cynthia Saltzman, traduzioni di Margherita Botto, Laura Pignatti, Chiara Stangalino. Rilegato in cofanetto con 18 tavole a colori fuori testo e numerose riproduzioni in bianco e nero di disegni e minute nel testo, pp. xlv – 768, € 85.