Il Journal di Matilde Manzoni
“Ho scritto una lunga lettera al mio caro papà, raccontandogli la felicità che ho provato nel guardare il suo ritratto e il desiderio che avrei di vederlo al più presto, di persona questa volta! Oh se papà potesse venire a Pisa!”
Matilde Manzoni, l’ultima dei figli di Alessandro ed Enrichetta, merita un capitolo a parte, grazie alla pubblicazione del suo diario, fortemente voluto da Cesare Garboli, che ne ha curato un’edizione esemplare. Creatura dolce e delicata, sventurata fanciulla prematuramente strappata alla vita, Matilde nasce nel luglio del 1830, a tre anni rimane orfana di madre, a otto entra in convento, a sedici ne sortisce (nel frattempo sono morte le sorelle Giulia, Cristina e Sofia) per non tornare più a casa: si allontana con la sorella Vittoria dall’invisa matrigna Teresa Borri, trascorrendo in Toscana (a Lucca, a Pisa, a Firenze, a Siena) gli ultimi nove anni di vita (6 luglio 1847-30 marzo 1856), ospite della sorella e del marito Giovanni Battista Giorgini, detto Bista, professore di legge. Si affezionò alla nipotina Luisina, la “bambina prodigio” che sorprendeva tutti con la sua intelligenza e che sarebbe morta all’età di 10 anni, quattordici mesi la dipartita della stessa Matilde. Nella primavera del 1950 un giovane aristocratico fiorentino, vedovo con una figlia, si innamora di Matilde ma desiste quando viene a conoscenza delle sue condizioni di salute. Durante il Capodanno del 1951 comincia a scrivere in un misto di francese e italiano il Journal, che s’interrompe bruscamente dopo tre mesi (“Sono rimasta tutta la mattina…”). Dalle pagine trapela il dissidio tra l’esuberanza emotiva del suo spirito e la moderazione imposta dall’educazione cattolica e dalle regole della società. Si accontenta di poco: un nastro per i capelli, un ballo, la compagnia dell’amica Luisa Lovatelli, una giornata di sole (“Che cosa bella il vedere il bleu del Cielo fra il verde degli ulivi! Che tinte! Non si udivano altri romori che il canto degli uccelli, tutto spirava dolcezza e soavità! J’ai senti mon cœur heureux de battre et reconnaissant d’exister!”).
Ama trascorrere le giornate a leggere: annota su un album i brani di poesia o di prosa che incontrano il suo gusto, adora le liriche di Leopardi, “bellissime e tristissime” (non fatica a identificarsi con il destino avverso di giovani ragazze come Silvia e Nerina), non le piace Shakespeare. Incline alla melanconia, è fragile di nervi, ha una complessione gracile, le basta un nonnulla per sentirsi male: “Ciò che sfiora appena gli altri mi ferisce a sangue”. Vede una sola volta il padre, durante la visita, più volte rimandata, del 17 settembre 1852 (rimarrà fino al 12 ottobre). “Dal padre non arriverà mai un segno d’interesse reale, mai una vera confidenza. Non risulta che Manzoni, in dieci anni di carteggio, abbia mai scambiato un’opinione o un’emozione con la figlia”, “Le lettere che Manzoni scrive alla figlia sono tutte uguali, tutte prevedibili, tutte spaventosamente prevedibili” (Garboli). Nel febbraio del 1853 Vittoria, incinta del secondo figlio, trova Matilde nello studio del marito con la bocca sporca di sangue: la tisi non le darà più scampo. Il 18 ottobre 1855 Matilde scrive così al padre: “Il non avere mai mai tue lettere dopo aver creduto per dei mesi di poterti rivedere! è proprio una cosa che fa pena! […] Sai che sono dei mesi che non mi scrivi, e non t’immagini che cosa è per me una riga tua? Tutte le mattine aspetto l’ora della posta con smania, e mi dico sempre, oggi certamente avrò una lettera, e invece tutti i giorni non c’è nulla!”. Trascorre gli ultimi quattro terribili mesi a letto, invocando una visita del padre che non arriverà mai.

Matilde Manzoni, Journal, a cura di Cesare Garboli, Adelphi, Milano 1992, pp. 196, € 14.