Scorsese poteva diventare un prete o un gangster. Ma non aveva la vocazione per il primo né il physique du rôle per il secondo: diventò un regista
Parlando della lavorazione di Toro scatenato, uno dei suoi capolavori, Scorsese ha dichiarato: “Sono entrato in una crisi profonda. Non volevo più fare il film, non volevo più fare nessun film. Fisicamente stavo malissimo. Ho passato quattro giorni in ospedale tra la vita e la morte. Sono stato fortunato, sono sopravvissuto, la crisi è passata. La mia fase suicida era conclusa”. In quegli anni Scorsese girava le sue opere come se fossero le ultime che gli avrebbero permesso di fare, e le crisi personali (“Il mio secondo matrimonio andava in pezzi. Mia figlia Domenica era appena nata, e già sapevo che non sarebbe vissuta con me”) spesso ne accompagnavano la lavorazione. “Bobby è venuto a trovarmi, ci siamo parlati sinceramente. Voler lavorare fino ad ammazzarsi, sognare una tragica morte – a un certo punto bisogna smetterla di dare i numeri, anche se a volte non si riesce a impedirlo”. Bobby è Robert De Niro. “Parlavamo di noi, ma improvvisamente ho capito davvero il personaggio. Quando Bobby mi ha domandato a bruciapelo: Vuoi che facciamo il film? Ho risposto di sì. Tutto era diventato chiaro. Quel che avevo appena attraversato, a Jake era capitato prima di me”. Scorsese si era identificato nella personalità autodistruttiva del pugile Jake La Motta prima che De Niro lo facesse da un punto di vista recitativo e fisico (com’è noto, ingrassò 30 chili per la parte). “Lo avevamo vissuto ciascuno a modo nostro. Il retaggio cattolico, il senso di colpa, la speranza di una redenzione”. Sono i temi portanti del cinema di Scorsese: il peccato, la condanna, l’espiazione. “Gli italoamericani nascono così, convinti di non meritarsi quel che capita loro”. Scorsese poteva diventare un prete o un gangster. Ma non aveva la vocazione per il primo né il physique du rôle per il secondo: diventò un regista. “Si trattò soprattutto di imparare ad accettarsi. Una volta fuori dall’ospedale, siamo partiti da soli per San Martin, un’isola dei Caraibi senza cinema né televisione”. Oggi bisognerebbe trovare un luogo senza internet. “Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, ormai parlavamo la stessa lingua. In dieci giorni abbiamo scritto insieme un copione di cento pagine”. Il sodalizio tra uno dei più grandi registi e uno dei più grandi attori del cinema moderno è stato qualcosa di più profondo di un rapporto professionale in cui ognuno ha contribuito all’affermazione artistica dell’altro: un’amicizia, una relazione creativa, a tratti simbiotica.
Si comincia con Mean Streets, 1973. De Niro è lo sbandato Johnny Boy. Sua sorella Teresa, che soffre di epilessia, è la ragazza di Charlie (Harvey Keitel, che aveva già tenuto a battesimo Scorsese con Chi sta bussando alla mia porta?). “Charlie è ossessionato dai propri sensi di colpa, si odia in modo così profondo che può possedere solo una donna segnata, macchiata. Non è vergine, ed è per questo che vuole stare con lei. Per lui l’epilessia è una maledizione divina. Andare a letto con Teresa è come infliggersi un castigo” commenta Scorsese. Charlie è l’alter ego del regista: abita a Little Italy, vorrebbe essere il San Francesco del suo quartiere (“I peccati non si scontano in chiesa. Si scontano per le strade, si scontano a casa”), cerca disperatamente di redimere se stesso e di salvare l’amico Johnny Boy.
In Taxi Driver, 1976, De Niro e Keitel si scambiano i ruoli: ora è il primo, nella parte del tassista Travis Bickle, a essere protagonista, mentre il secondo (il pappone Shorty) fa il comprimario. Un reduce dal Vietnam che soffre d’insonnia è ossessionato dalla sporcizia morale della sua città (“Vengono fuori gli animali più strani la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori”) e invoca un altro diluvio universale per ripulirla. Dopo la relazione fallimentare con Betsy (Cybill Shepherd), una wasp che lavora per la campagna presidenziale del senatore Palatine (al primo appuntamento la invita a vedere un film pornografico, che per lui è la normalità), Travis sfoga la sua alienazione (celebre il soliloquio – “Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando? Dici a me? Eh, non ci sono che io qui. Di’, ma con chi credi di parlare, tu?” – improvvisato da De Niro davanti allo specchio) dapprima cercando di salvare una squillo minorenne (Jodie Foster) che non vuole essere salvata e poi, rasandosi la testa come un Irochese, facendo una carneficina nel tugurio dove lei si prostituisce.
Il successo di Taxi Driver permette a Scorsese di girare New York, New York (1977), un raffinato musical che racconta la storia d’amore tra un sassofonista (De Niro) e una cantante (Liza Minnelli). L’egoismo e la gelosia di lui faranno colare a picco il matrimonio. La lunghezza considerevole (163 minuti, poi ridotti a 136), il ritmo lento e l’assenza del lieto fine trasformano il film in un flop.
Con Toro scatenato, 1980, Scorsese si rialza come il suo pugile. Jake LaMotta arriva sul tetto del mondo, diventando campione mondiale dei pesi medi, per poi perdere tutto, annichilito dalla sua furia autodistruttiva. Il fratello (Joe Pesci), che è anche il suo allenatore, lo abbandona, la moglie (Cathy Moriarty) lo lascia, lui perde il titolo (arrivando a farsi massacrare sul ring da Sugar Ray, ultimo atto di una via crucis) e finisce in una cella della Florida per sfruttamento della prostituzione. Al colmo del degrado e dell’umiliazione, prende a pugni il muro della prigione, piangendo (il breve monologo di De Niro, da vedere nella versione originale, è da brivido e la sua interpretazione fu premiata con l’Oscar).
Se Toro scatenato segnava il ritorno al milieu italo-americano e al suo mondo violento e maschilista, Re per una notte riprende il tema dell’alienazione urbana di Taxi Driver virato in chiave in commedia nera (sarà un altro insuccesso). De Niro è un aspirante stand-up comedian di 34 anni dal nome impronunciabile, Rupert Pumpkin, che vive ancora con la madre, porta i baffetti, indossa completi sgargianti ed è costretto a sequestrare il comico che idolatra (un Jerry Lewis che non sorride mai) per avere il suo quarto d’ora di gloria in tv.
Poi, nel 1990, arriva Quei bravi ragazzi ed è un trionfo. Il film racconta la vita quotidiana di un gruppo di mafiosi, che non sono più i gangster di mezza tacca di Mean Streets né quelli avvolti nel mito del Padrino (se ne sarebbero ricordati gli autori dei Soprano). Sgobbano, uccidono, tradiscono. Come fa il protagonista, Henry Hill (Ray Liotta), costretto a denunciare i boss con cui lavora, contravvenendo alla prima regola (“Non tradire gli amici e tieni sempre il becco chiuso”, gli dice fin dall’inizio Jimmy Conway/De Niro) e rinunciando per sempre ai suoi privilegi: trascorrerà il resto della vita nel programma di protezione testimoni, vivendo come “uno stronzo qualsiasi” che “deve fare la fila come tutti gli altri”. I temi forti del cinema di Scorsese – il peccato, la colpa, l’espiazione – sembrano scomparsi. Resta solo la violenza, incarnata dalle efferatezze del sociopatico Tommy DeVito (Joe Pesci, premiato con l’Oscar). Dopo aver prestato muscoli e malvagità allo stupratore Max Cady in Cape Fear – Il promontorio della paura (1991), De Niro veste i panni, anzi i completi vistosi – gareggiano con quelli di Re per una notte –, di Sam “Asso” Rothstein in Casinò (1995). È il direttore di successo del Tangiers di Las Vegas, ma il suo impero crolla a causa di due variabili impazzite: la donna di cui si innamora, una giocatrice senza scrupoli di nome Ginger (Sharon Stone), che accetta di sposarlo ma che non lo ama, e l’amico Nicki (Joe Pesci), killer dal grilletto facile che lo trascinerà nella polvere, quella del deserto, pericolosamente vicino alle buche dove vengono seppelliti i cadaveri. La via crucis di Asso, personaggio ossessionato dal controllo più che dall’espiazione, non è più quella di Jake LaMotta: l’orizzonte religioso si è eclissato, l’unica fede rimasta è quella nel dio denaro.
Con l’epopea di The Irishman, che arriva nel 2019, ventiquattro anni dopo Casinò, ci si avvia così al crepuscolo di un genere, il gangster-movie, di uno stile, quello flamboyant del regista, e di un personaggio, l’irlandese affiliato a Cosa nostra. Il film segue la “parabola” di Frank Sheeran, che da camionista diventa sicario della mafia, “dipingendo case”, cioè uccidendo persone, per conto del boss Bufalino (un Joe Pesci di sorprendente misura). Dovrà farlo anche con il potente capo del sindacato dei camionisti Jimmy Hoffa (Al Pacino), di cui era guardia del corpo e amico. È il canto del cigno: in carcere il vecchio Bufalino va in chiesa, è senza denti e non riesce quasi a mangiare, all’ospizio Frank, costretto a convivere con i propri rimorsi (la figlia, l’unica a intuire la verità, non gli rivolge la parola da anni), chiede al prete di tenere la porta socchiusa. Sono ormai fantasmi che si muovono in spazi sempre più circoscritti in attesa dell’inevitabile.
Le dichiarazioni di Martin Scorsese sono tratte da Michael Henry Wilson, Conversazioni con Martin Scorsese, Milano, Rizzoli 2006.