Da Blood Simple – Sangue facile, l’esordio del 1984, a Prima ti sposo poi ti rovino del 2003, Joel è stato ufficialmente il regista, Ethan il produttore (poi co-regista a partire da Ladykillers, 2004) e le sceneggiature firmate da entrambi, ma nella realtà i fratelli Coen hanno sempre condiviso tutte le fasi creative (fotografia esclusa) delle loro opere, compreso il montaggio, svolto dietro lo pseudonimo di Roderick Jaynes.
Opere, dunque, prima che film: “il risultato di un lavoro intellettuale”, come specifica il Vocabolario Treccani. È la materia di cui sono fatti le trame, le visioni, i sogni della loro audace, sofisticata, cerebrale cinematografia. Lo sguardo è freddo, la sostanza incandescente. I temi – filosofici e religiosi – sono calati dentro storie di genere, governate dal fato, dalla sventura e dalla stupidità dell’essere umano, dove si scorgono gli influssi di una matrice ebraica non immune da elementi yiddish, spesso tradotti in umorismo nero.
In Blood Simple il triangolo fatale del noir (il proprietario di un night vuole vendicarsi della moglie che lo tradisce e del suo amante) collassa per le azioni imprevedibili del quarto incomodo, il detective ingaggiato per ucciderli, che provocheranno una reazione a catena d’incomprensioni: qui, come in altri luoghi della loro filmografia, la verità delle cose è fuori dalla portata della comprensione umana. La protagonista è Frances McDormand, che nello stesso anno sposerà Joel Coen e tornerà in altri sei film della coppia. Il titolo è un’espressione gergale, ripresa dal romanzo Red Harvest di Dashiell Hammett, che identifica lo sguardo reificato di un assassino: una situazione che tornerà in altri personaggi successivi, a partire dall’ingombrante Charlie Meadows (John Goodman) in Barton Fink del 1991 (Palma d’oro e miglior regia a Cannes), storia di un commediografo newyorkese (John Turturro, premiato anche lui sulla Croisette) impegnato in temi realistici e sociali che cerca fortuna a Hollywood, non comprendendo la realtà che lo circonda, la quale assume contorni sempre più allucinatori e forse nemmeno esiste.
Anche quando l’intelligenza è all’opera, il risultato finale è uno scacco. Succede a Tom Reagan (Gabriel Byrne), consigliere del boss irlandese Leo (Albert Finney), che, in Crocevia per la morte (1990), deve districarsi lungo un groviglio di tradimenti e delazioni, apparenze e finzioni per salvare l’amicizia, l’amore e l’onore in un gangster-movie venato di hard-boiled: le due variabili impazzite del congegno narrativo sono una donna (Marcia Gay Harden), amata dai due protagonisti, e suo fratello, un viscido bookmaker (ancora Turturro).
L’eclisse dell’intelligenza torna negli spazi innevati e nelle menti assenti di Fargo (1996), che segna il ritorno dei Coen alla terra natia, il Minnesota, e al palmarès (Oscar per la miglior sceneggiatura e per la miglior attrice a Frances MacDormand, miglior regia a Cannes). Un venditore d’auto (William H. Macy) assolda due balordi (Steve Buscemi e Peter Stormare) per sequestrare la moglie e intascare il riscatto pagato del suocero, ma nulla va come dovrebbe e l’eccesso d’insensatezze produce un massacro, senza che la poliziotta incinta Marge possa far nulla per impedirlo. Tutto è immobile, vacuo, assurdo. I movimenti sono lenti, i pensieri sono piatti come lo schermo della tv che tutti guardano e l’orizzonte è solo una distesa di neve senza speranza. Mai la “stupidità del male” è stata filmata con uno sguardo così impassibile. Ispirato ironicamente a una storia vera, è in realtà il trionfo della finzione. Ha generato nel 2014 una delle più originali serie televisive antologiche, giunta finora a quattro stagioni. Checché se ne dica, la McDormand non aspettava un bambino: l’unico figlio dei coniugi Coen è stato adottato.
Poi arriva Dude (in italiano Drugo) Lebowski (Jeff Bridges), l’ex hippie perdigiorno, e si scatena la più folgorante, ironica e paradossale sarabanda cinematografica del decennio. È il 1998 e Il grande Lebowski, omaggio fin dal titolo a Il grande sonno, di cui ricalca la trama tortuosa, mette in scena una saga dell’irragionevolezza e diventa un cult. Dal rigore gelido del Minnesota al caldo della California poco cambia: dietro la storia di un’omonimia (il protagonista ha lo stesso nome di un miliardario su una sedia a rotelle e non potrebbero esistere due caratteri più antitetici), dietro un rapimento che non c’è mai stato, dietro il falò dei generi (noir, western, commedia, musical), dietro i sogni che si accendono di colori e geometrie come i balletti di Busby Berkeley, dietro un raduno di personaggi scombiccherati e irresistibili – il cowboy narratore che perde il filo del discorso (Sam Elliott), l’ottuso reduce del Vietnam che perde ogni occasione per stare zitto (John Goodman), il giocatore di bowling pedofilo in tuta viola (Turturro, chi altri?), la performer di arte vaginale (Julianne Moore), il re dell’industria del porno (Ben Gazzara) – c’è sempre un centro vuoto, e un senso del nulla irriverente anziché tragico, rappresentato da due personaggi laterali quanto sintomatici: il balordo nichilista (ancora Stormare) e l’inutile Donny (ancora Buscemi), che viene continuamente zittito e che muore d’infarto per un pericolo inesistente.
Lo sguardo crudele, beffardo, acuminato dei fratelli Coen trova il suo compendio in L’uomo che non c’era (2001, premio per la regia a Cannes), fin dal titolo un apologo filosofico sull’inesistenza, girato in un sontuoso bianco e nero che omaggia il noir degli anni Quaranta, periodo in cui è ambientata la vicenda (la fotografia è di Roger Deakins, in sodalizio con i due registi dai tempi di Barton Fink). Un barbiere che fuma continuamente e parla di rado (Billy Bob Thornton) si mette in società con un traffichino (Jon Polito) e uccide involontariamente l’amante (James Gandolfini) della moglie (Frances McDormand), la quale viene accusata del delitto e morirà suicida in carcere. Ma l’appuntamento con il destino per il protagonista è solo rimandato: finirà a sua volta sulla sedia elettrica per un omicidio che non ha commesso. La storia è raccontata in prima persona e, dopo la morte della moglie, il barbiere, ormai quasi disincarnato, dice di sé: “Ero come un fantasma che cammina per strada e quando tornavo a casa ero circondato dal vuoto”. E nel finale, prima dell’ultima, definitiva dissolvenza, mentre si sta compiendo l’inevitabile: “Non so cosa troverò oltre il cielo e la terra, ma non ho paura di partire. Forse le cose che non capisco lì saranno più chiare, come quando la nebbia si dirada”. È il pensiero recondito che alberga nell’anima di tutti, ma nel cinema dei Coen le speranze, come le risposte, diventano sostanze evanescenti: non resta che la perfezione della forma – qui il rigore dell’astrazione sfiora il teorema narrativo – come forma di catarsi contro l’impenetrabilità del mondo.
Anche Non è un paese per vecchi (2007) è percorso dalla frammentaria voce off del protagonista, uno sceriffo disilluso (Tommy Lee Jones) che fatica a comprendere il male e non vuole mettere a rischio la propria incolumità per debellarlo. Rimarrà dunque ad assistere alla sequenza di cadaveri generata da un killer efferato e implacabile (Javier Bardem) che si è messo sulle tracce di un saldatore texano (Josh Brolin), il quale ha trafugato una valigetta con due milioni di dollari dal luogo di un regolamento di conti tra due bande del narcotraffico. I Coen adattano fedelmente l’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, attenuando la componente acido-tagliente del loro stile. Grande successo di pubblico e pioggia di Oscar: film, regia, sceneggiatura e attore non protagonista (Bardem).
Sul tema della sventura, ripreso anche nel successivo A proposito di Davis (2013), i Coen consegnano nel 2009 la loro opera definitiva, A Serious Man: racconta le vicissitudini sempre più drammatiche di un professore di matematica ebreo (Michael Stuhlbarg) che deve affrontare il tradimento della moglie e il conseguente divorzio, un fratello disoccupato che gli crea solo guai, la figlia che vuole un intervento di rinoplastica, il ricatto di uno studente coreano e, come se non bastasse, alcuni esami medici di routine che paventano il peggio… Il grido disperato di Larry Gopnik, un piccolo Giobbe della provincia americana, è un appello senza risposta, come gli interrogativi sul volere di Dio. Perfino i rabbini confermano che il mondo è senza senso: esemplare a riguardo la parabola, raccontata da uno di loro, di un dentista ebreo che trova inciso sui denti di un non-ebreo la parola “Salvami”, dalla quale però non si può trarre nessun precetto che non sia una morale di massima: “Le domande che ti turbano forse sono come il mal di denti: le senti per un po’ e poi spariscono”. Uno sberleffo sardonico dal nichilismo a fior di labbra.
Nel 2018 Joel ed Ethan Coen producono il loro ultimo film (La ballata di Buster Scruggs, un western girato in digitale per Netflix): è la fine di un lungo connubio dopo 18 lungometraggi concepiti insieme, molti dei quali hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema.