Apolide, controverso, talentoso, Roman Polański non è solo, alle soglie dei 90 anni, un regista ancora in attività, ma uno dei più grandi cineasti viventi
The Palace, il nuovo film Roman Polański, è uno dei più attesi del 2023. Il suo cinema umoristico e graffiante, straniante e tormentato ha attraversato indenne le temperie della rivoluzione culturale tra gli anni Sessanta e Settanta, e quelle più stilistiche del postmoderno dei decenni a seguire, conservando nel tempo la propria audace individualità e il pungente, sardonico, impietoso sguardo sul mondo.
Dopo essersi diplomato alla scuola di Lodz, esordisce nel 1962 con Il coltello nell’acqua non senza contrasti con la commissione del Ministero della Cultura che ne congela il progetto per un paio d’anni per l’assenza di un “messaggio sociale”. Ci sono già i temi portanti della futura filmografia: il triangolo (il ménage di una coppia borghese viene incrinato dall’inaspettata intrusione di un giovane autostoppista, imbronciato e ribelle), l’ambiguità (la “scomparsa” del ragazzo, il finale aperto), l’acqua (quella dei laghi Masuri, una scenografia immobile), il gioco al massacro (che non risparmia nessuno), il décalage (il coltello del titolo, finto oggetto drammatico gettato in acqua nell’indifferenza generale).
La Polonia comunista è angusta e oppressiva e il giovane Roman cerca fortuna e ispirazione altrove. La troverà inizialmente in Inghilterra, dove gira titoli cruciali. Nel primo, Repulsion (1965) storia di una manicure sessuofoba, il regista esplora e valorizza in anticipo su Bella di giorno di Buñuel il côté morboso, frigido, ipnotico dell’abbagliante bellezza di Catherine Deneuve. Il co-protagonista non è il fidanzato, che fa peraltro una brutta fine, ma l’appartamento – il primo di una lunga serie – dove accadono cose inquietanti: mani che spuntano dai muri, spazi che si allungano o deformano, rumori ossessivi. Il secondo è Cul-de-sac (1966) che Polański considera il suo film preferito (“È il più cinematografico che abbia mai fatto. È una storia che può essere raccontata solo in un film. Non potrebbe essere un romanzo, né una trasmissione televisiva, né una pièce di teatro o un quadro”): in un castello del Northumberland due coniugi malamente assortiti – lui femmineo e impotente (Donald Pleasence), lei bella e provocatoria (Françoise Dorleac, sorella sfortunata della Deneuve, morta l’anno dopo in un tragico incidente automobilistico) entrano in collisione con un’improbabile coppia di gangster (il grasso e il magro) che, reduce da una rapina finita male, attende il fantomatico Katelbach, novello Godot. Il terzo, Per favore… non mordermi sul collo (1967), sempre scritto con Gérard Brach e primo film a colori per Polański, è un’irresistibile parodia del cinema dei vampiri (il figlio del Conte Krolock è gay) nonché l’alcova tra il regista (che è l’imbranato, pavido assistente dell’ammazzavampiri Abronsius) e la meravigliosa Sharon Tate nel ruolo della bella locandiera. Il colpo di fulmine li porterà all’altare l’anno successivo: è il secondo matrimonio per Polański, che in precedenza aveva sposato l’attrice Barbara Lass, la “Brigitte Bardot” polacca.
Nello stesso 1968 esce Rosemary’s Baby, scintillante esordio americano, è un clamoroso successo. Ambientato all’interno del Dakota Building, dove dodici anni dopo John Lennon sarebbe stato assassinato da un suo fan, è la storia di una donna incinta (Mia Farrow) che cerca disperatamente di gridare al mondo una verità – in cambio del successo, il marito attore (John Cassavetes) ha venduto il proprio nascituro a degli anziani vicini di casa adoratori di Satana – che ha dell’incredibile.
Polański è il “ragazzo d’oro” di Hollywood, Sharon è incinta, la coppia è al settimo cielo e nulla lascia presagire il tragico copione che il destino ha in serbo: nella notte del 9 agosto 1969, mentre Roman è a Londra per lavoro, tre ragazzi della “famiglia Manson” irrompono a Cielo Drive 10050, la casa dei Polański sulle colline di Beverly Crest, massacrando Sharon all’ottavo mese di gravidanza e altri quattro amici della coppia.
Polański ha bisogno di allontanarsi dalla grancassa della stampa scandalistica, che banchetta sui resti del massacro. Si rifugia ancora in Inghilterra, dove realizza, con i soldi di Hugh Hefner, patron di Playboy, il lugubre, cruento e visionario Macbeth (1971). Torna poi a Hollywood per un altro titolo epocale, Chinatown (1974). Un detective privato losangelino (Jack Nicholson) scopre una storia di corruzione pubblica, connessa allo sfruttamento dell’acqua comunale, e un’altra privata, fangosa e sconvolgente, legata all’affascinante e algida figlia (Faye Dunaway) di un capitalista senza scrupoli (John Huston). Il titolo è legato all’omonimo quartiere dove si consumerà il tragico finale, imposto da Polański alla produzione (quello dello sceneggiatore Robert Towne era più accomodante).
Il successo sembra nuovamente spalancargli le porte di Hollywood ma Polański preferisce andare a Parigi per dirigere sé stesso nell’Inquilino del terzo piano (1976), dove interpreta il ruolo di un travet immigrato di origine polacca al centro di un ipotetico complotto ordito dagli invadenti vicini di casa (simili a quelli di Repulsion e Rosemary’s Baby), i quali vorrebbero spingerlo ad assumere le sembianze di Simone Choule, la ragazza che abitava lì prima di lui e ha tentato il suicido. In realtà, rovesciando la traiettoria di Rosemary’s Baby, accade tutto nella testa del protagonista: Trelkowski, e con lui Polański, si traveste da donna e si lascia cadere per due volte dal davanzale del suo appartamento, finendo, con perfetta e perturbante circolarità – un’altra ricorrenza del suo cinema – a occupare il posto di Simone all’ospedale: il film si chiude senza titoli di coda su un urlo che ricorda la pittura di Francis Bacon.
Poi il fattaccio: di ritorno in America per l’adattamento di un romanzo giallo, Polański, da sempre attratto da lolite e ninfette, mette gli occhi su una tredicenne che ha ingaggiato per un servizio fotografico dedicato a “ragazze sexy e impertinenti” da pubblicare su Vogue Hommes. Fanno l’amore nella villa di Jack Nicholson e il giorno dopo il regista è accusato di stupro. “Nei miei molti presentimenti di disastro, un pensiero non mi aveva mai sfiorato, quello di poter finire in galera, di vedere la mia esistenza e la mia carriera rovinate, per aver fatto l’amore” dirà. Segue un calvario giudiziario, un mese di detenzione e, quando le cose stanno per volgere al peggio per via di un giudice poco propenso a rispettare i termini del patteggiamento, la fuga dagli Stati Uniti. Ripara in Francia, dove non vige l’estradizione (il mandato di cattura internazionale è tuttora pendente). Nel frattempo, la sua immagine pubblica è cambiata radicalmente: dal ruolo di Grande Vittima è passato a quello di Grande Corruttore, scatenando un altro scandalo, ripreso di recente anche dal movimento #MeToo.
Dopo aver adattato nel 1979 il romanzo di Thomas Hardy Tess che Sharon gli aveva consigliato di trasporre sullo schermo poco prima di morire (il film è dedicato a lei), Polański realizza Frantic (1988), un insinuante thrilling su un americano a Parigi (l’impacciato Harrison Ford, perfetto per il décalage del regista) che, senza sapere una parola di francese, deve risolvere il mistero connesso al sequestro della moglie. L’anno dopo Polański sposa all’età di 56 anni la co-protagonista del film, Emmanuelle Seigner, che di anni ne ha 23 e che torna nel successivo lungometraggio del marito, Luna in fiele, acre jeu de massacre in interni (una nave da crociera invece di un appartamento) tra due insoddisfatti coniugi inglesi (Hugh Grant e Kristin Scott Thomas) e una coppia dal passato burrascoso: lui è uno scrittore americano inchiodato su una sedia a rotelle (Peter Coyote), lei (la Seigner) una femme fatale.
Con La morte e la fanciulla (1994) racconta, dopo quella di Rosemary, un’altra storia di una donna (Sigourney Weaver) che lotta per affermare la propria verità: quella di essere stata violentata sulle note del quartetto di Schubert mentre era ostaggio della dittatura militare (siamo in America Latina), dall’uomo, un dottore dall’aria perbene (Ben Kingsley), capitato per casa a casa sua. È un altro feroce kammerspielfilm come più tardi sarà il brillante e spietato Carnage (2011). Con Il pianista (2002), rievocazione dolorosa del ghetto di Varsavia e della persecuzione nazista, Polański vince l’Oscar, con L’ufficiale e la spia (2019) affronta, non senza risvolti autobiografici, l’antisemitismo dell’affaire Dreyfus, ma è con Venere in pelliccia (2013) che Polański ci consegna il suo ultimo capolavoro. Durante una prova teatrale un’aspirante attrice all’apparenza modesta (ancora la Seigner, finalmente in un ruolo da protagonista), si trasforma nella reincarnazione di Vanda, la protagonista della pièce di Leopold von Sacher-Masoch, trasformandosi in una dea baccante che sottomette il regista teatrale (Mathieu Amalric, alter ego di Polański) nello schiavo del suo desiderio, fino a costringerlo a prendere il suo posto e travestirsi da donna, in un ribaltamento radicale, e indimenticabile, dei rispettivi ruoli.
Letture
Polanski Roman, Roman Polanski di Roman Polanski, Milano, Bompiani 1984.
Scandola Alberto, Roman Polanski, Milano, Il Castoro Cinema 2003.
Zanichelli Massimo, Un cineasta nella tormenta. Roman Polanski dal massacro di Bel Air all’arresto di Zurigo, in Massimo Zanichelli e Ilaria Floreano, Amori fatali. Grandi passioni tra cinema e realtà, Recco – Genova, Le Mani Edizioni 2016.