Una casa di cura, una porta socchiusa, un uomo anziano e solo su una sedia a rotelle che ha ormai perso il senso del tempo. Frank Sheeran (Robert De Niro) ha raccontato per quasi tre ore e mezza la sua storia di ex camionista diventato il sicario di Russell Bufalino (Joe Pesci), boss mafioso della Pennsylvania, e la guardia del corpo del sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino, all’esordio con Scorsese), la cui amicizia non gli ha impedito di ucciderlo a sangue freddo in un livido pomeriggio di luglio perché era diventato un personaggio scomodo per Cosa Nostra. Sheeran, l’irlandese del titolo, si farà per questo odiare dalla taciturna figlia Peggy (Anna Paquin), l’unica ad aver capito il coinvolgimento del padre nella scomparsa di Hoffa: deciderà di non vederlo per il resto dei suoi giorni. Nel finale di The Irishman, il film evento del 2019, c’è l’epitaffio del cinema di Martin Scorsese, di un genere, il gangster movie, e di una generazione di attori feticcio, da Robert De Niro a Joe Pesci, che hanno accompagnato questo percorso filmografico. Il cinema del regista italoamericano non era mai stato così crepuscolare. Anzi, The Irishman è il titolo di congedo da un’eccitante cinematografia di ambientazione urbana, che fin dai suoi esordi ha visto affermarsi uno stile concitato quando non spasmodico.
Già Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, 1973, primo atto del lungo sodalizio tra Scorsese e De Niro (a oggi nove film insieme), mostrava uno stile nervoso, febbrile, tra instabili riprese a mano e jump-cut à la nouvelle vague, avvolgenti movimenti di macchina e sinuosi travelling, montaggio sincopato e colonna sonora arrembante, aperta e chiusa da Be My Babe delle Ronettes, mentre strada facendo mescola Rolling Stones ed Eric Clapton con Renato Carosone e Giuseppe Di Stefano. Tra i film più viscerali di Scorsese, è anche portavoce di uno dei temi più ricorrenti del regista: il conflitto tra colpa ed espiazione, tra dannazione e redenzione. Vent’anni dopo Abel Ferrara sarebbe tornato a sviluppare queste ossessioni nell’iconoclasta Il cattivo tenente, partendo proprio dalla fisicità di Harvey Keitel e dai rovelli del suo personaggio, Charlie Cappa: «Il dolore dell’inferno ha due aspetti, quello che puoi toccare con mano e quello che si sente nel cuore, nell’anima, quello spirituale. E si sa bene che il peggiore dei due è quello spirituale».
Interpretando in Mean Streets il balordo Johnny Boy, De Niro fa le prove per lo spostato Travis Bickle di Taxi Driver, 1976, dove il sottobosco non è più criminale ma morale («Vengono fuori gli animali più strani la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre») e dove lo scarafaggio del sottosuolo – il tassista reduce del Vietnam che diventa un vigilante – cerca di spazzare via la lordura del mondo compiendo una strage e diventando, imprevedibilmente, un eroe nazionale.
Quattro anni dopo appare sugli schermi un altro capolavoro che avrebbe sancito un’epoca, portato a compimento un genere e suggellato il rise and fall scorsesiano: Toro scatenato. L’ascesa e la caduta di Jake La Motta, pugile campione del mondo che finisce per fare l’intrattenitore in un night club, vengono consegnate all’immortalità dalla memorabile performance di Robert De Niro, che ingrassa 30 chili per interpretare il protagonista sul viale del tramonto, dallo strepitoso bianco e nero di Michael Chapman e dal montaggio turbinoso di Thelma Schoonmaker, che inaugura qui la lunga collaborazione con il cineasta newyorkese. Compare per la prima volta nella filmografia di Scorsese l’italoamericano Joe Pesci, che al tempo lavorava in un ristorante e non frequentava un set da quattro anni.
La violenza fisica di Toro scatenato sfocia nel parossismo di Quei bravi ragazzi, 1990, dove De Niro e un Joe Pesci da Oscar formano un duetto da brivido: il primo è il famigerato irlandese Jimmy Conway, il secondo Tommy DeVito, un sociopatico dal grilletto facile. Nervoso e frenetico, incalzante ed efferato, il film, narrato in prima persona dal pentito Henry Hill (Ray Liotta) e scandito da continui virtuosismi (carrellate a perdifiato con il pirotecnico piano-sequenza al Copacabana mentre The Crystals cantano Then He Kissed Me, freeze-frame e jump-cut, un montaggio forsennato), è attraversato da una colonna sonora ininterrotta che vibra come un cavo elettrico, lasciando lo spettatore senza respiro in un’escalation di dialoghi, turpiloqui, spari, sangue e musica: Gimme Shelter dei Rolling Stones, Baby I Love You di Aretha Franklin, Leader of the Pack delle Shangri-Las, Il cielo in una stanza di Mina, Parlami d’amore Mariù cantata dall’immancabile Giuseppe Di Stefano, e poi The Ronettes, Sid Vicious, George Harrison…
Cinque anni dopo Casinò è la sublimazione di tutto questo. Ancora De Niro: è l’ebreo Sam “Asso” Rothstein, implacabile direttore del Tangiers di Las Vegas, innamorato di una donna che non lo ama, Ginger, interpretata da Sharon Stone nel ruolo più luminoso della sua carriera. E ancora Pesci nei panni di Nicki, gangster senza scrupoli che pagherà cara la propria arroganza e la relazione con Ginger. Protagonisti dell’apologo sul dio denaro e di un racconto polifonico dove si mescolano tre voci narranti (Asso, Nicki e Marino, il braccio destro di Nicki, interpretato da Frank Vincent, caratterista italoamericano amico di Joe Pesci, già nel cast di Toro scatenato e Quei bravi ragazzi) sono ancora una volta la macchina da presa in perenne movimento, la sintassi sincopata, il ritmo tambureggiante, l’eterogenea, infinita colonna sonora (J.S. Bach, Richard Strauss, Georges Delerue, Ray Charles, Louise Prima, Little Richard, Domenico Modugno e Rolling Stones a manetta), i fuochi d’artificio dei dialoghi, la spirale senza requie e senza redenzione di violenze e sopraffazioni. Tutto è terribile, e irresistibile. Come le sconsideratezze di Jordan Belfort e della sua banda di depravati broker raccontate da Leonardo “faccia d’angelo” DiCaprio, nuovo pupillo del maestro (a oggi cinque film insieme), in The Wolf of Wall Street, 2013. Un’euforia senza ritegno di tre ore tra truffe, bugie, stupefacenti, puttane, eccessi, degenerazioni, hybris: Belfort è come Scarface, che nella notte dell’addio al celibato, dopo il folle baccanale in aereo (100 dipendenti per 50 prostitute, «più altre cinquanta che ci aspettavano all’atterraggio») e droghe come se piovesse, guarda Las Vegas dall’attico del Mirage, pensando che il mondo sia suo: «nell’insieme il weekend mi costò due milioni di dollari, incluse le spese di risistemazione di tutto il ventottesimo piano». La macchina da presa si muove vorticosa, il montaggio è esasperato, la colonna sonora impazza: tutto luccica nell’oro del privilegio, come già in Quei bravi ragazzi, ma è nefando come l’inferno. È l’alterazione della realtà, è il fascino, ambiguo e ammaliante, del potere e del successo.
Poi arriva The Irishman, il canto del cigno. Joe Pesci è un capolavoro di misura e sottrazione, il lontano parente degli ammazzasette di Goodfellas e Casinò. De Niro, che racconta la sua storia con rassegnazione, senza più il bisogno di adescarci, è all’ennesima trasformazione, non più fisica bensì digitale: il de-aging, che ha fatto lievitare all’inverosimile i costi di produzione con il passaggio dalla Paramount a Netflix e che ringiovanisce il volto dell’attore mentre il suo fisico rimane quello di un anziano, è spiazzante. Alle soglie dei 78 anni, mentre ci consegna il suo testamento cinematografico, Martin Scorsese è ancora capace di stupirci.