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Tra sacro e profano, la poetica dell’autore friulano trova nel cinema un mezzo espressivo di inaudita potenza, che si snoda dal sottoproletariato di Accattone all’insostenibile orrore di Salò o le 120 giornate di Sodoma, di cui non arrivò a vedere la prima

Nel 1961 arriva sulla scena cinematografica italiana un film destinato a far discutere di un autore che già faceva discutere: Accattone di Pier Paolo Pasolini. È un’onda d’urto destinata a ulteriori sconquassi, un terremoto che non si sarebbe più fermato. Raccontava la via crucis e la redenzione di un pappone (Franco Citti, il cui fratello Sergio aveva aiutato Pasolini ad apprendere il romanesco, diventando in seguito il suo aiuto regista) e fotografava, con la complicità di Tonino Delli Colli (prima collaborazione di un lungo sodalizio), gli ultimi atti di quel sottoproletariato romano che viveva ai margini dell’Urbe e dentro cui Pasolini vedeva l’ultimo avamposto antropologico rimasto immune dai mali della borghesia e del consumismo. Un bianco e nero dai forti contrasti, inserti onirici non immemori di Buñuel, una serie di panoramiche ieratiche e “primitive”, lunghe carrellate apprese dalla Nouvelle Vague, la Passione secondo Matteo di Bach come commento musicale: del Neorealismo non c’era più traccia. Nonostante la rivendicazione di una continuità di ricerca e d’espressione tra la sua attività letteraria, soprattutto poetica, e quella filmica, Pasolini arrivava dietro la macchina da presa digiuno di esperienze cinematografiche, ma aveva con sé la “folgorazione figurativa” dei seminari d’arte tenuti da Roberto Longhi all’Università di Bologna. Così la sua messa in scena poggiava sulla lezione “sacra” e “umanista” di Masaccio e di altri pittori del Rinascimento.

Non c’è niente di più tecnicamente sacro che una lenta panoramica. (Riprovo ancora l’incanto di quelle panoramiche sui muretti scrostati, sul sole deserto del Pigneto..). Sacralità: frontalità. E quindi religione. La religiosità non era tanto nel supremo bisogno di salvezza personale del personaggio (da sfruttatore a ladro!) o, dall’esterno, nella fatalità, che tutto determina e conclude, di un segno di croce finale, ma era nel modo di vedere il mondo: nella sacralità tecnica di vederlo”, scriveva nelle Confessioni tecniche del 1965. Così in Mamma Roma, 1962, la celebre inquadratura di Ettore, il figlio della prostituta (Anna Magnani), steso sul tavolo di contenzione del carcere, ricalca il Cristo morto di Mantegna. Così le Deposizioni di Rosso Fiorentino e Pontormo, pittori anticlassici del Cinquecento toscano, entrano nei tableau vivant della Ricotta (episodio di Ro.Go.Pa.G, 1963), dove esplode il colore e dove Pasolini fa pronunciare al caustico Orson Welles una frase epocale sulla società italiana: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. Altro che boom culturale. Il film verrà sequestrato per “vilipendio alla religione di Stato” (il protagonista, Stracci, è una comparsa, perennemente affamata, di un film sulla Passione di Cristo che morirà sulla croce per indigestione) e Pasolini processato: i procedimenti giudiziari a suo carico saranno in tutto 33, un numero “cristologico” che non sembra casuale.

Pasolini non è mai pago dei propri conseguimenti, mai fermo sulle proprie posizioni. Nel 1964, dirigendo Il vangelo secondo Matteo, un soggetto evangelico, cerca di uscire dalla frontalità sacra dei film precedenti, temendo d’incorrere nella retorica dell’ovvio: alterna ottiche larghe e ravvicinate, filma dall’alto, assembla contrasti, gira con taglio documentaristico, scardina l’iconografia tradizionale, sceglie come proscenio i Sassi di Matera, stupisce tutti per pudore e purezza, dedica il film “alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII” e coinvolge “amici intellettuali e borghesi” in piccole parti: Natalia Ginzburg, Rodolfo Wilcock, Alfonso Gatto, Giorgio Agamben, Enzo Siciliano, Francesco Leonetti (in Mamma Roma era già apparso, nel ruolo di un prete, Paolo Volponi).

Con Uccellacci e uccellini, 1966 – storia di due anime disgraziate (padre e figlio), dei loro alter ego francescani e di un corvo che fa il grillo parlante – realizza un apologo umoristico e grottesco di un mondo alla deriva. Totò è spogliato di qualsiasi elemento macchiettistico e Ninetto Davoli, qui al suo primo ruolo importante nella filmografia pasoliniana, introduce quello sguardo ingenuo e puro che sarebbe tornato, anche solo fugacemente, come una costante nelle sue successive apparizioni. La musica è di Domenico Modugno. I due attori e il cantautore torneranno in un mediometraggio, parte del film a episodi Capriccio all’italiana, di rara ispirazione e poesia: Che cosa sono le nuvole? del 1967, dove compaiono anche Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Totò e Ninetto, ancora padre e figlio, sono due marionette pensanti che, dopo aver interpretato Jago e Otello, finiscono in una discarica per mano dell’immondezzaro Modugno, il quale canta lo struggente pezzo, scritto da Pasolini, che dà il titolo al film. Dimenticando la realtà che li circonda, rimarranno attoniti di fronte alla visione delle nuvole, che non conoscono, e alla “straziante, meravigliosa bellezza del creato”.

Poco tempo dopo, per il suo Edipo Re, Pasoliniingaggia Silvana Mangano (Giocasta), Franco Citti (Edipo), Alida Valli (Merope), Carmelo Bene (Creonte) e Julian Beck (Tiresia) per costruire un intreccio meta-temporale su tre livelli: un prologo ambientato negli anni Venti (dove la Mangano è una madre apprensiva che, in un prato, stringe al petto il proprio neonato); una parte centrale in una Grecia ancestrale, barbara, tribale; un epilogo nella Bologna contemporanea dove il protagonista ritorna al giardino d’infanzia. Pasolini cambia sguardo, stile, forma, sempre più radicali, sempre più irriducibili: il suo cinema, al centro di una metamorfosi, tende a diventare più oscuro ed ermetico, ma non meno potente e inventivo, anche se il pubblico fatica a comprenderlo. È così anche per Teorema, 1968, un’allegoria che sfida l’assoluto della rappresentazione (l’ascensione finale della serva Emilia, interpretata da Laura Betti, intima amica di Pasolini). Uno studente, chiamato l’Ospite (Terence Stamp), venuto da un altrove e lettore di Rimbaud, viene ospitato da una famiglia borghese, sconvolgendone gli equilibri. Tutti – da Paolo, il Padre (Massimo Girotti) a Lucia, la Madre (Silvana Mangano), da Pietro, il Figlio (Andrès José Cruz Soublette), a Odetta, la Figlia (Anne Wiazemsky) – avranno rapporti sessuali con lui (compresa la serva, che, a differenza degli altri, sacrificherà la propria individualità come forma di espiazione) e nessuno sarà più quello di prima. La Figlia si chiude nell’isteria e finirà in manicomio; il Figlio si getta a capofitto nella pittura con la consapevolezza che un artista “non vale niente, è un essere inferiore, un verme che si contorce e striscia per sopravvivere”; la Madre, fino a quel momento monogama, si concede una serie ininterrotta di avventure occasionali con dei ragazzi della stessa età dell’Ospite; il Padre rinuncia a se stesso e si spoglia di tutto, raggiungendo nudo, e folle, quel deserto di cui ogni tanto si erano intraviste delle immagini. Il film viene sequestrato per oscenità e Pasolini processato.

Porcile, 1969, è un altro scandalo. Tra le pendici dell’Etna e Villa Pisani a Stra, si consuma in due atti alternati (il primo ambientato nel Cinquecento e quasi muto, il secondo nella Germania di quegli anni e pieno di dialoghi) la parabola nera e terrea, crudele e grottesca, di un giovane (Pierre Clementi) che, diventato un cannibale (“Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, tremo di gioia”), viene catturato dai soldati e dato in pasto ai cani, e di un giovane apatico (Jean Pierre Léaud, l’attore feticcio di Truffaut) che non riesce a ribellarsi all’autorità incarnata dal padre, un magnate industriale (un Oreste Lionello in carrozzella con baffetti alla Hitler che deve qualcosa al dottor Stranamore di Kubrick), e viene divorato dai maiali con cui è solito accoppiarsi.

Poi, inaspettatamente, arriva la “Trilogia della Vita”, inaugurata dal Decameron (1971). Pasolini trapianta le novelle di Boccaccio da Firenze a Napoli, le ambienta in un contesto popolare anziché borghese, gira un film giocoso e picaresco che sfronda i tabù sessuali (con inevitabile coda di polemiche), riporta l’umanità in un passato utopistico di visceralità e candore, sorride alla vita,  sfonda al botteghino (tanto da generare una ridda di beceri film poi ribattezzati “decamerotici”) e si riserva il ruolo di un pittore giottesco che nell’ultima inquadratura del film, dando le spalle alla macchina da presa e guardando l’affresco che ha di fronte, dice: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”. Seguiranno I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore della Mille e una Notte (1974).

Infine l’abiura. Con Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975, Pasolini si arrende alla degenerazione del presente consegnando un’opera rigorosa, oltraggiosa, insostenibile, un Decameron degradato e funereo che mette in scena la mercificazione del corpo come metafora del potere. Nel racconto delle sevizie cui sono sottoposti una serie di ragazzi e ragazze – rastrellati presso famiglie antifasciste e sequestrati in una villa di campagna durante la repubblica di Salò – per mano di quattro rappresentanti del potere costituito (il Duca, il Vescovo, il Presidente della Corte d’Appello, il Presidente della Banca Centrale), non c’è la minima traccia di compiacimento, solo un’impietosa riflessione sulla degradazione dell’essere e della società, mentre nelle tre bolge dantesche (i gironi dedicati alla manie, alla merda, al sangue) si consuma tutto l’orrore della storia e dell’anima.

Brutalmente assassinato il 2 novembre del 1975 sul lido di Ostia (il delitto di uno, il diciasettenne Pino Pelosi, dietro cui si nascondeva il delitto di molti), Pasolini non avrebbe assistito né alla prima del film, avvenuta a Parigi il 22 novembre né alle immancabili polemiche né al processo subito dal produttore Alberto Grimaldi, poi assolto, per “corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico”.

Al funerale, Alberto Moravia, suo caro amico, disse che di poeti come Pasolini ne nascevano tre o quattro ogni secolo. Oggi che è il centenario della sua nascita, lo ricordiamo non solo come uno scrittore totale (romanziere, poeta, traduttore, saggista, elzevirista), un cineasta unico, uno spirito coraggioso e controcorrente, ma come una delle intelligenze più acute e ardenti del suo tempo.

Letture:

Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, due volumi, Mondadori, Milano 2001.

Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977.