Il tempo è un valore, non un nemico, in quest’angolo di Friuli-Venezia Giulia. Ne sono la riprova i vini macerati del più irriverente dei mastri vinai del nord-est, Fulvio Bressan
“Avete sbagliato a venire qui, perché non troverete quello che state cercando”, dice Nereo Bressan, 91 anni, padre del ben noto Fulvio Bressan, dell’omonima cantina allocata nella dolce pianura friulana della Valle dell’Isonzo. “Potete anche tornare da dove siete arrivati”, insiste Nereo. C’è da dire che l’accoglienza non è delle più calorose ma, dopo aver imbroccato la strada giusta (l’unica piccola insegna con il nome dell’azienda è solo all’ingresso ed è visibile da un unico senso di marcia, ovviamente l’opposto di quello da cui arriviamo…), l’intenzione è tutto tranne quella di tornare indietro. A rincarare la dose due piccoli galletti bianchi e neri che razzolano nel piazzale antistante; più che cantare sembrano starnazzare, anche loro parrebbero infastiditi dalla nostra presenza. Ma bastano cinque minuti (… forse dieci) perché Nereo Bressan e volatili cambino idea. A darci manforte arriva Jelena, la moglie di origini lettone di Fulvio che, probabilmente abituata alle esternazioni del suocero, prende in mano la situazione e ci accompagna in vigna per una breve passeggiata sotto la pioggia. “Prima di parlare di vino bisogna conoscere il territorio di produzione: le caratteristiche della nostra zona sono uniche al mondo, micro-terroir, micro-clima, presenza del fiume, del mare che mitiga il clima, e delle colline del Collio che ci proteggono”, comincia così il suo racconto Jelena, fonte inesauribile di cultura vitivinicola. “Non molto tempo fa leggevo L’impero di Cindia, di Federico Rampini, e ho capito come da ogni parte del mondo provano a copiarci. In Cina provano a fare il vino che facciamo noi, hanno invitato gli stessi specialisti, hanno esportato stessa materia prima ma il risultato è diverso. È successo lo stesso per il cashmere: cosa hanno sbagliato? L’acqua che c’è in Piemonte che serve per il lavaggio della lana, per esempio, non è uguale. Vale lo stesso per il vino. Questa è la forza dell’Italia, questa è l’unicità del Collio”.
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
“Il mondo è donna! L’ha già detto qualcun altro prima di me”, chiosa Nereo Bressan, citando Dante Alighieri. Dopo aver deposto le armi, riconsegna volentieri la parola alla donna dell’azienda, Jelena, che parla della vigna come se fosse sua figlia, conoscendone ogni dettaglio e ogni esigenza, lei che un figlio già ce l’ha e che promette di seguire le orme dei genitori. Fulvio sta per arrivare e l’attesa si fa impaziente. La sua figura è tra le più irriverenti e controcorrenti nel mondo del vino. Le sue esternazioni pubbliche, politicamente scorrette, hanno fatto parlare molto negli anni scorsi, ma il vino non si fa con le polemiche. Lo spiega bene Nereo: “Siamo noi a imparare dalla vite, a capire cosa le serve”. Sue anche un filotto di domande retoriche: “Perché la nostra uva era matura gli ultimi di ottobre mentre quella degli altri ad agosto? Perché si inerbisce? Nessuno se lo chiede, non serve lavorare, stella”, aggiunge Nereo, ormai amico per la pelle. E ancora: “Perché non si va a zappare la vigna ma si butta il disseccante? Perché è più semplice. Fare meno… fare peggio, fare contro natura”. Riprende fiato, guarda l’orologio e aggiunge: “Adesso vado a mettermi i denti, così sono più presentabile”. È in quel momento che arriva il figlio, Fulvio, stropicciando di 90 gradi il volante del suo fuoristrada. “Allora, ancora senza bicchiere?”, esordisce stringendoci la mano. Jelena ci ha già spiegato gran parte delle varie fasi di vinificazione. Ma attenzione a parlare di tecnici. “Il nostro lavoro è capire la pianta, la sua base di chimica organica. Se l’uva matura è sana non va trattata con la chimica e quindi non serve un enologo: se oro in vigna lo trasformi in oro anche in cantina”, dice Fulvio, che prima ancora di dedicarsi vita, anima, schiena, mani e corpo alla vigna, ha un trascorso di psicologia clinica che lo ha portato a lavorare per cinque anni in un centro oncologico infantile. “Lì ho capito che la vita dura troppo poco per essere vissuta male, posso sopportare quindi chi sta male, ma non chi sta bene. Ergo: se non ti sopporto te lo faccio capire e arrivano i vaffanculo col camion”. A dispetto delle imprecazioni più o meno forti, usate come intercalare, Fulvio è un uomo burbero, ma tenero e capisci subito che ci sa fare. Un po’ dottore irascibile come McCoy, un po’ testa calda come Capitano Kirk e un altro po’ come il siderale Spock, gli imprescindibili della Trinità della serie Star Trek, Fulvio sembra davvero venuto dallo spazio. Eppure, ogni sua considerazione arriva come una meteora che dribbla tra i pianeti statici, sempre uguali a loro stessi, di un universo, quello del vino, che dovrebbe essere sempre in trasformazione, come la natura. Ecco, i vini di Fulvio Bressan illuminano, stupiscono, riempiono. Ammesso che si riescano a trovare. “Ho richieste pari a quattro volte la produzione. Ma la produzione” si affretta a precisare, “non supererà le 30 mila bottiglie annue. Più di così, cadrei nell’industria”. Chi lo conosce solo dopo aver bevuto i suoi vini diverse volte, “finisce sempre per dire che ci assomigliamo, io e loro. Anzi che siamo proprio uguali”». Nei calici Carat 2019 (Tocai Friulano, Malvasia Istriana e Ribolla Gialla), un vino generoso, deciso. Sa di frutta matura a polpa gialla, spaziando dalla pesca all’ananas maturo, dall’albicocca al melone. Uno dei segreti dei vini dei “Mastri Vinai” Bressan, di fatto, oltre alle macerazioni controllate, è l’età delle piante, che raggiungono anche i 120 anni di vita. “L’industria fa vino a 3 anni dall’impianto” chiosa Fulvio, “secondo noi invece la pianta inizia a dare il meglio attorno ai 20/25 anni. Gli altri espiantano noi vinifichiamo”.
Il tempo è un valore, non un nemico in quest’angolo di Friuli-Venezia Giulia. Ne è una riprova il Pignol 2004, che dopo 17 anni di botte ha ancora nerbo, carattere, lunghezza, in un gioco di frutta e macchia mediterranea (l’alloro, ma anche l’origano), fiori e spezie. E ancora Pinot Nero e Rosantico (moscato rosa), entrambi 2017. In cantina, mezzo bosco: gelso, castagno, ciliegio selvatico, pero selvatico, acacia e frassino. Doghe da 50 millimetri, stagionate per minimo 8 anni, ovvero un anno e mezzo a centimetro. Tutte piegate a vapore, perché da Bressan sono bandite le tostature.
A dispetto della totale assenza di insegne per raggiungere la cantina, tante le lavagnette con la raison d’étre dei vini Bressan: “Rispetto e umiltà”, “Se vuoi insegnare qualcosa all’asino, perdi tempo e infastidisci la bestia”.
È ora di congedarci. L’uscita stavolta è ben indicata: “Fanculo”, con tanto di freccia. Mai insulto così apprezzato. Ma la promessa è di tornare, stronzi!