Ha trasformato il suo nome in un aggettivo che significa suspense, ha confezionato film perfetti e scene mozzafiato, ha rivoluzionato il cinema, non solo un genere. Da Psyco a La donna che visse due volte, analisi di un regista dallo stile impareggiabile
Tra le tante conseguenze che l’irruzione di Psyco provocò nel mondo dell’immaginario è l’utilizzo fuorviante dell’aggettivo “hitchcockiano” – il più abusato insieme a “kafkiano” – per definire qualcosa di imprevisto e scioccante, quando il cinema di Hitchcock, al contrario, si è sempre espresso attraverso la sottile arte della suspense, della suggestione e della stilizzazione, non dello shocker. Ma tant’è. Risulta difficile, per non dire impossibile, liberarsi di Psyco e della sua doccia, la scena più traumatica della storia del cinema. Hitchcock aveva pianificato ogni cosa nel minimo dettaglio per ottenere quell’effetto straordinario: l’acquisto in segretezza dei diritti del romanzo di Robert Bloch e di tutte le copie del libro che riuscì a recuperare affinché nessuno potesse conoscere la storia, l’accordo di riservatezza fatto firmare alla troupe, l’assenza di anteprime per i critici e, dopo una campagna promozionale senza precedenti, il divieto di ingresso per il pubblico a film iniziato.
È stato un affermato regista di successo della Hollywood classica a rivoluzionare l’establishment, non uno dei “giovani turchi” della Nouvelle Vague che in quel momento volevano mettere a soqquadro il mondo. Come un giovane film-maker indipendente, scommise su sé stesso e, all’età di sessant’anni, autoprodusse il film che nessuna major voleva finanziare, realizzando il suo più grande successo commerciale, sovvertendo il mondo del cinema e aprendo una ferita insanabile nella mente degli spettatori, provocata a colpi di lama dentro la doccia, un luogo che non sarebbe stato più lo stesso, al cinema come nella vita. Una scena scioccante che arriva, appunto, come una coltellata: imprevista (era inconcepibile che la protagonista morisse poco prima della metà del film), ingiusta (per sposarsi Marion aveva rubato 40.000 dollari, ma aveva deciso di costituirsi), efferata (quante coltellate, quanto sangue, quanta ferocia), bellissima (il canto del cigno di un cinema purissimo – montaggio formale, immagini subliminali, inganni ottici – scandito dalla musica tagliente di Bernard Herrmann). Psyco sarebbe rimasto il capostipite dello slasher e il film più citato, imitato e parodiato della modernità.
Non era però la prima volta di una lama nella filmografia di Hitchcock, anzi. Un coltello da cucina compare già nel suo primo film sonoro, Blackmail, del 1929. La protagonista lo usa per difendersi da un violentatore, uccidendolo: rimane ossessionata per giorni dall’atto e dall’oggetto («Knife, knife, knife» è la parola che sente di continuo). Nel 1936 lo stesso tipo di coltello viene conficcato nell’addome di un uomo all’apparenza pacifico che gestisce un cinema, ma che in realtà è un terrorista (Oskar Homolka). A ucciderlo è la moglie (Sylva Sidney), che vendica così il fratellino, morto per lo scoppio di una bomba che il marito gli aveva affidato. L’anno prima, in Il club dei 39 (scritto, come gli altri tre film, da Charles Bennett), un giovane canadese a Londra per affari (Robert Donat), coinvolto suo malgrado in un intrigo spionistico, si ritrova nel letto un’avvenente spia inglese con un coltello nella schiena. Sarà accusato di un omicidio che non ha commesso, come accadrà al pubblicitario di Intrigo internazionale (Cary Grant), fotografato mentre sorregge il cadavere di un diplomatico dell’Onu ucciso da una pugnalata (l’innocente perseguitato è uno di temi più ricorrenti nella filmografia hitchcockiana). Vent’anni dopo il dottor McKenna (James Stewart), in vacanza con la famiglia in Marocco, s’imbatte in un agente segreto, mascherato e truccato come un indigeno, con l’ennesimo pugnale nella schiena, in L’uomo che sapeva troppo, remake dell’omonimo film girato dallo stesso Hitchcock in Inghilterra nel 1934. Il coltello da cucina ricomparirà in Il sipario strappato del 1966 nell’interminabile scena dell’omicidio Gromek (cinque minuti di agonia e tensione). E che dire delle forbici che Grace Kelly riesce a piantare nella schiena del suo aggressore in Il delitto perfetto?
Se l’omicidio è una ricorrenza (lo strangolamento – Nodo alla gola, L’altro uomo, Frenzy – è un’altra specialità della casa), la paura del vuoto è un filo rosso che viene srotolato lungo tutta la filmografia hitchcockiana. In Giovane e innocente (1937) l’eroina sta per cadere in un dirupo con l’auto mentre il protagonista cerca di salvarla, come vent’anni dopo farà Cary Grant con Eve Marie Saint in cima al monte Rushmore in Intrigo internazionale. Lo stesso Grant, appollaiato sul tetto di una villa in Costa Azzurra, afferra il polso della giovane “gatta” Danielle (Brigitte Auber), sospesa nel vuoto, per farla confessare in Caccia al ladro (1955). Il villain di Sabotatori, del 1942, precipita dalla cima della Statua della Libertà mentre il protagonista cerca invano di salvarlo, così come capita a uno dei cattivi di Intrigo internazionale sotto lo sguardo impassibile dei quattro presidenti degli Stati Uniti scolpiti nella roccia delle Black Hills. James Stewart cade invece dalla finestra di casa sua per l’aggressione del vicino di casa uxoricida (Raymond Burr, futuro Perry Mason televisivo) nel finale della Finestra sul cortile, quasi intollerabile sul piano della suspense.
Ma la vertigine più pura, abissale, irredimibile dell’universo hitchcockiano è quella della Donna che visse due volte, in originale Vertigo, che l’autorevole rivista «Sight and Sound» considera il più grande film della storia del cinema (e pensare che al tempo, 1958, fu un mezzo fiasco). James Stewart, all’ultima interpretazione con Hitchcock, è John “Scottie” Ferguson, un detective che soffre di acrofobia ed è incaricato da un suo ex compagno di college, Galvin Ester, di sorvegliare la moglie Madeleine (Kim Novak), una bionda fatale e sofisticata affetta da manie suicide. Lui se ne innamora, ma non riesce a distoglierla dalle sue ossessioni. La salva quando si getta nella baia di San Francisco, ma non può nulla quando precipita dal campanile di una missione. Tormentato dai sensi di colpa, cade in depressione. Tempo dopo incontra per caso una donna, Judy (sempre la Novak), che assomiglia terribilmente a Madeleine. Inizia con lei una relazione ai confini della patologia, cercando di trasformarla nella donna amata: il colore dei capelli (Judy è bruna), l’acconciatura, l’abbigliamento. Solo così potrà averla. Eppure, quando è tra le sue braccia, non si accorge di stringere a sé la stessa donna: Judy era stata ingaggiata da Galvin per recitare la parte della moglie, che il marito ha spinto dalla cima del campanile e che Scottie non ha mai conosciuto. Judy era solo una controfigura, una copia e solo più tardi sarà una collana a rivelargli la verità: ma non c’è lieto fine in questa storia d’inganni e simulazioni.
Nelle coercizioni di Scottie («la volontà spinge quest’uomo a ricreare un’immagine sessuale impossibile; in poche parole, quest’uomo vuole andare a letto con una morta», dichiarò il regista) si possono leggere in filigrana le fantasie sadiche che Hitchcock ha cercato di proiettare sulle “sue” amate attrici, tutte ossigenate e altere. L’apice di questo non avviene però in Psyco (un concentrato di scopofilia, travestitismo e necrofilia), ma con la protagonista di Gli uccelli e Marnie, Tippi Hedren, la quale, a differenza di Grace Kelly, Kim Novak o Janet Leigh, non era un’attrice affermata, ma una starlet scoperta dallo stesso regista, che la considerava una sua creatura. Nel primo film Hitchcock la fa massacrare da uno stormo di corvi e gabbiani, nel secondo le fa interpretare la parte di una cleptomane frigida posseduta con la forza dall’aitante Sean Connery. Sul set di Marnie, davanti a Marnie, cioè a Tippi Hedren, in un cortocircuito tra realtà e rappresentazione, Hitchcock perse la testa: dopo una serie di avances, arrivò a dichiararsi. Lei, che aveva trentaquattro anni, lo respinse, lui, pigmalione ferito arrivato a sessantaquattro primavere, le rovinò la carriera.
Letture
François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Parma, Pratiche 1977 (ora Milano, Il Saggiatore 2010).
Donald Spoto, Il lato oscuro del genio. La vita di Alfred Hitchcock, Torino, Lindau 1999.
Stephen Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Milano, Il Castoro 1999.
Massimo Zanichelli, Psyco & Psycho. Genesi, analisi e filiazioni del thriller più famoso della storia del cinema, Recco, Le Mani 2010.
David Thomson, Psycho. Come Hitchcock insegnò all’America ad amare l’omicidio, Roma, minum fax 2020.
Roberto Calasso, Allucinazioni americane, Milano, Adelphi 2021.